Una tra le più significative trasformazioni del nostro quotidiano indotte dalla pandemia è stata la riorganizzazione di molte attività produttive mediante il lavoro in rete. Aziende e amministrazioni pubbliche costrette a chiudere le proprie sedi hanno continuato a produrre nelle nostre case mutuamente interconnesse dalle piattaforme digitali. È stata un’occasione propizia per ragionare su un ampliamento dell’utilizzo del modello della produzione in rete. Questo dibattito si è poi incidentalmente intrecciato con un’altra questione di drammatica attualità: il crescente squilibrio demografico tra poli metropolitani e aree interne. Tra il 1950 e il 2007, la percentuale della popolazione mondiale che vive nelle aree urbane è passata dal 33% al 50%, e si attesterà poco sotto il 70% nel 2030. Il nostro paese registra un trend analogo a quello planetario, disegnando scenari futuri assai inquietanti, in particolare per le aree interne del Mezzogiorno, già caratterizzate da una secolare tendenza all’emorragia demografica. Ebbene, quando l’emergenza ha rivelato che una quota significativa del lavoro che alimenta i nostri sistemi produttivi può essere connesso mediante mere interazioni virtuali, è stato naturale chiedersi se la sopravvenuta inessenzialità della prossimità “fisica” della manodopera non stesse privando della sua ragione d’essere il modello di organizzazione dello spazio basato sulla città.
Perché vivere in luoghi congestionati, rumorosi e inquinati, se possiamo scegliere di abitare in borghi ameni, silenziosi e dall’aria salubre, e raggiungere il nostro “luogo” di lavoro semplicemente cliccando sulle icone di Teams o Meet? È forse venuto il tempo di comunità “disseminate” nello spazio piuttosto che accalcate in distopici formicai?
In realtà non è una ipotesi originale. Una ventina di anni fa, quando le ICT già mostravano il loro potenziale di trasformazione del sistema produttivo, non mancò chi immaginò che la diffusione del lavoro in rete avrebbe reso obsoleto il modello urbano. Gli sviluppi successivi hanno tuttavia smentito queste proiezioni. Il motivo per cui, a dispetto del perfezionarsi di tecnologie in grado di “frammentare” le organizzazioni produttive e disseminarle nello spazio, la popolazione continua a concentrarsi non è chiarissimo, ma probabilmente il fenomeno ha molto a che fare con le forze scatenate dall’apertura dei mercati nazionali alla competizione globale. Sebbene il commercio su larga scala abbia dato grande impulso al fenomeno urbano, finché rappresentava una piccola quota della produzione mondiale le città conservavano un rapporto assai stretto con la campagna contigua, da cui dipendevano per la fornitura dei beni primari. Ma la progressiva liberalizzazione dei traffici ha legato in maniera cruciale il benessere delle popolazioni di ogni paese alla capacità di competere con successo con altri sistemi produttivi nazionali, e la pressione competitiva ha indotto i governi ad investire massicciamente in infrastrutture di comunicazione per accorciare le distanze con i mercati globali. La recente espansione delle città è quindi presumibilmente legata alla sempre maggiore centralità del loro ruolo di “snodi” strategici delle reti lungo cui viaggiano le merci.
Il rapporto tra “città” e “provincia” ne è stato profondamente alterato. Metropoli connesse sempre meglio con altre metropoli piuttosto che con i territori contigui hanno alla lunga scoperto la convenienza di rifornirsi di beni primari in località lontanissime, spezzando così il legame storico con la rispettiva “provincia”. A quel punto, il ruolo delle aree interne agli occhi delle classi dirigenti è rapidamente cambiato: ridurle a sede di localizzazione di produzioni inquinanti e siti di stoccaggio rifiuti e smantellarne la dotazione di servizi pubblici è stato un naturale “riflesso condizionato” di questo nuovo assetto della divisione internazionale del lavoro. E più questa subalternità agli interessi delle città si accentuava, più le aree interne diventavano preda del degrado, favorendo la propensione degli abitanti alla “fuga”.
Pertanto, le ricadute sull’assetto del territorio della riorganizzazione produttiva resa possibile dal lavoro in rete non sono affatto scontate. Finché la rete si sposerà con un modello di sviluppo basato sulla intensificazione del commercio internazionale, le potenti forze che tendono a infittire le connessioni tra le metropoli continueranno a “tagliare fuori” dallo sviluppo le aree interne. Inutile quindi attendersi dalle tecnologie digitali la “salvezza” delle aree interne se non si ragiona su come spezzare la loro storica alleanza con la globalizzazione.
Prof. Salvatore D’Acunto – Univ. “L. Vanvitelli” Dott.ssa Natasha Quadrano